Parto anonimo.
(Tratto da www.lenuovemamme.it)
Per la
legge italiana non si diventa mamma e papà automaticamente, al momento del
parto; è la dichiarazione di nascita o il
riconoscimento a farci genitori di quel bambino appena venuto al mondo.
La donna che partorisce può anche non riconoscere il bambino, e se
neppure il papà lo fa si aprono le pratiche per la dichiarazione
di adottabilità. È
una scelta di responsabilità e di apertura alla vita: quella donna affronta il
percorso della gravidanza, i tanti mutamenti fisici e psicologici che porta con
sé, il travaglio del parto e l’esperienza della nascita sapendo di non poter
crescere quel bambino, per dargli la possibilità di vivere e di essere felice,
con una famiglia che se ne possa prendere cura.
Se tutto andrà per il meglio ci saranno una nuova mamma e un nuovo
papà, quel bambino diventerà un adulto e dovrà essere informato della sua
storia adottiva, e a venticinque anni potrà domandare al Tribunale per i
Minorenni di essere autorizzato a conoscere il nome della madre che l’ha dato
alla luce, e attraverso lei ricostruire le proprie radici, la sua storia
personale, e magari conoscere anche eventuali fratelli o sorelle di sangue.
C’è però un’eccezione, conosciuta solo da Italia, Francia e
Lussemburgo: la madre
può, al momento del parto, chiedere di restare anonima anche rispetto alle
ricerche successive del
proprio figlio. Un anonimato che pesa per cento anni dalla nascita, e di fatto
impedisce ai più di riallacciare i nodi della propria storia.
L’anonimato serve senza dubbio a stimolare la scelta del parto ed
evitare l’aborto, perché
tiene la mamma al riparo dal peso della responsabilità dell’abbandono, perché
mai il figlio la potrà ricercare e riportarla dinnanzi alla scelta che fece
quel giorno.
Ma quel figlio (o i suoi figli) può sviluppare malattie genetiche
curabili solo conoscendo i dati dei propri ascendenti, come avviene per il linfoma
non Hodgkin ma
anche per il diabete mellito, e ancora più spesso può manifestare gravi
difficoltà psicologiche specialmente durante l’adolescenza, quando tutti i
ragazzi hanno bisogno di sapere da dove vengono per conoscersi davvero, ed
affrontare le sfide della vita.
E quella mamma spesso vive un travaglio interiore pesantissimo, e
non può più tornare a cercare quel figlio per ricucire una ferita che continua
a sanguinare specialmente quando sono superate le difficoltà economiche e
personali che hanno imposto l’abbandono, e magari sono arrivati altri figli.
In una sentenza dello scorso 25 settembre la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo ha condannato questa grave violazione del diritto alla vita
privata, tutelato dall’art. 8 della Convenzione Europea, imponendo un
ripensamento della nostra legge volto a consentire al figlio di conoscere dati
non identificanti della madre, come ad esempio la sua anamnesi
o il DNA, e a permettere alla donna di ripensare la sua scelta di anonimato, e
farsi conoscere dal proprio figlio.
Saranno passati tanti anni (almeno 25 secondo i progetti di legge
di modifica che pendono da anni all’esame delle nostre camere) e quella mamma
non troverà un giudice e una condanna, ma un giovane uomo che la cerca per
ringraziarla, o una giovane mamma che vuole farle conoscere un nipotino, e
vedere nei loro tratti il segno di una storia d’amore condivisa.
Un Comitato
per il Diritto alle Origini raccoglie persone che hanno vissuto questa
esperienza,sostiene la modifica della legge italiana, per rimuovere
la condanna dei cento anni di silenzio, raccogliendo l’attenzione delle persone
più sensibili: provate a leggere nella loro pagina facebook le storie di chi cerca la sua mamma
biologica, senza nulla togliere all’amore per i genitori adottivi. Non vi
troverete nessuna condanna, ma solo la foto di uno striscione che parla da solo
“Ti cerco per dirti grazie per avermi dato la vita”. Troverete
anche l’invito a sostenere con una petizione on line questa conquista di
civiltà e di amore.
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